I Magri pensieri

Lucio Magri

Lucio Magri se n’è andato da poco più di 24 ore. Giornalista, intellettuale, uomo politico, anima della sinistra eretica italiana. È stato fondatore del quotidiano Il Manifesto assieme a Luciana Castellina, Luigi Pintor, Valentino Parlato e  Rossana Rossanda.

Magri ha deciso di morire volontariamente a 79 anni. Togliendosi la vita in una clinica svizzera che assiste al suicidio. Una scelta cosciente, la sua. Presa, dicono gli amici che gli sono stati accanto, dopo aver tanto ragionato, pensato e riflettuto. Magri era perseguitato da una depressione di cui non riusciva a liberarsi. Ci è riuscito ieri. A modo suo. Con una scelta radicale, una delle tante compiute nella sua vita.

Non spetta a me (come a nessuno) dare un giudizio su un gesto che è e rimane personale. Compiuto da una persona nel pieno delle proprie facoltà mentali ed intellettive. Certo, un suicidio rimane un suicidio. Ma ciò non toglie il rispetto per una decisione a lungo meditata e ponderata. Sì, rispetto, anche nella non condivisione del gesto. In Italia, però, sembra che non siamo in grado nemmeno di tacere innanzi al libero arbitrio di una persona nei confronti del proprio corpo e della propria vita. Non sono un giurista e nemmeno un esperto di etica e non mi addentro in terreni a me sconosciuti e pieni di pericoli. Dico però che la morte di Magri, e di tante come la sua, richiedono una sola cosa: il silenzio. Quello stesso che lui, in questi giorni, aveva chiesto agli amici, ai parenti e ai compagni di una vita. Sarebbe bello se per una volta anche i fanatici dello scontro vita-non vita (che assurda dicotomia!) rimanessero zitti. Perché, come ha scritto Pietro Ingrao, “un gesto come quello di Lucio rimarrà sempre insondabile, chiede rispetto e silenzio”.

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Quando i politici vanno nel pallone

Calcio e politica vanno spesso a braccetto. Berlusconi ce lo ha insegnato. Altri, come lui, cercano di seguire la scia pallonara per avere una battuta sui giornali, un passaggio sui Tg sportivi, una pacca sulle spalle dai tifosi che, chissà, magari poi finiscono per votarli. Esempi non mancano. Eccome. Quando si parla di Inter la voce di Ignazio La Russa non manca mai. Il Ministro della Difesa è un nerazzurro doc e tanto basta per sentirsi in diritto di far sapere il suo punto di vista a giornalisti e telecamere. La Russa dice la sua sui cambi di panchina (l’ultima proprio con l’avvicendamento tra Gasperinio e Ranieri), sulla formazione da schierare (difesa a tre o a quattro?) e sulla eterna diatriba tra Inter e Juventus.  Ogni volta che ad Appiano Gentile succede qualcosa il Ministro ex An c’è. E parla.

Davide Cavallotto (Lega Nord)

La Russa è uno dei tanti politici che, quando vogliono, riempiono le agenzie di stampa con dichiarazioni e punti di vista, non si sa bene chiesti da chi, su ciò che accade nel mondo del calcio. Come lui c’è solo Maurizio Paniz. Avvocato veneto, juventino della prima ora, è il presidente dello Juventus club Montecitorio. Una istituzione. E proprio per questo si sa sempre cosa pensa sul mondo bianconero.
Sul fronte romanista c’era il verde Paolo Cento che, con la sua proverbiale schiettezza, entrava spesso nelle vicende di Trigoria, svelando la sua mai celata natura da ultras. Ora si sente meno.
L’ultimo a essersi  aggiunto alla lista dei politici tifosi e, all’occorrenza, opinionisti è tal Davide Cavallotto. Deputato della Lega, è un arcigno difensore della purezza della razza. E proprio per questo ha manifestato ai taccuini di un’agenzia di stampa la sua indignazione per la convocazione in azzurro di Osvaldo, l’oriundo che è appena stato acquistato dalla Roma. «La convocazione di Osvaldo nella nazionale italiana certifica il fallimento definitivo della politica della Figc», ha detto. E ancora: È’ inaccettabile che oggi il nostro calcio, per decenni ritenuto il migliore del mondo, stia diventando una succursale dei paesi emergenti. Consiglio ai nostri giovani di andare a giocare nei campionati stranieri, così magari verranno notati dal nostro selezionatore». Con quale autorità il deputato leghista mette il naso nelle questioni di Coverciano nessuno l’ha capito.  Loro non hanno la nazionale padana? Cavallotto, da perfetto sconosciuto, ha cercato di avere il suo momento di visibilità con un argomento da sempre caro ai padani:gli stranieri. Per un attimo i riflettori si sono accesi su di lui. Adesso spegnete le luci.

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Genova, dieci anni dopo. E le domande che ancora restano

Venti luglio 2001. Venti luglio 2011. Sono passati dieci anni dal G8 di Genova. Come ogni anno da allora, anche quest’anno nella città ligure si ricorderanno quei giorni. Ci saranno manifestazioni e mostre. Sono state pensate altre iniziative. L’obiettivo è sempre lo stesso: non perdere la memoria. E chiedere (ancora) giustizia.

Per le strade di Genova furono in tanti a manifestare, in quel luglio del 2001. A migliaia. C’erano italiani, americani, tedeschi, spagnoli, francesi. C’erano i cattolici e i militanti di sinistra. I centri sociali, gli scout. Gli ambientalisti. Suore e preti. Cani sciolti. Tutti uniti dalla convinzione che “un altro mondo è possibile”.

C’erano tanti manifestanti, sì. Ma ci fu anche tanto altro, dieci anni fa, per le strade di Genova. Ci furono i saccheggi e le devastazioni dei black block. Ci furono violenze e abusi delle forze dell’ordine. Le manganellate, i lacrimogeni e l’accanimento contro persone rese inoffensive.

In media parlarono di un vero e proprio massacro. Una mattanza. Amnesty International definì i fatti di Genova come «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale».

Il culmine si raggiunse il 20 luglio in Piazza Alimonda. Dove venne ucciso un manifestante: Carlo Giuliani, un ragazzo di soli 23 anni. Ma non era ancora abbastanza. Il 21 luglio ci fu l’irruzione a suon di manganelli nella scuola Diaz, dove dormivano centinaia di manifestanti. E ancora la caserma di Bolzaneto, dove uomini, donne e anche qualche giornalista, furono seviziati e torturati da agenti che cantavano “Faccetta nera” e inneggiavano ad Augusto Pinochet.

Il quindicenne picchiato per le strade di Genova nel 2001

Dopo i fatti di Genova i legali dei manifestanti hanno tentato di ottenere giustizia. Molte denunce furono presentate alla magistratura. I processi, però, sono finiti in un nulla di fatto. Come quello al sovrintendente Giuseppe De Rosa, tanto per fare un esempio. Condannato in primo grado a 20 mesi per aver picchiato un 15enne, la sentenza è stata ribaltata in sede di Corte d’Appello. L’agente non pagherà mai quell’aggressione. E come lui i commilitoni che parteciparono al pestaggio. Tra loro c’era anche Alessandro Perugini, all’epoca vice capo della Digos genovese. Dopo il G8 Perugini fu addirittura promosso.

Tutto, o quasi, venne insabbiato. Spesso con l’ausilio della prescrizione o dell’indulto, votato dal parlamento nel 2006. Gli avvocati del Genoa Legal Forum hanno presentato 200 denunce penali contro esponenti delle forze dell’ordine per gli scontri e i presunti abusi durante le manifestazioni. Tutto archiviato per l’impossibilità di riconoscere e identificare gli agenti. Stessa sorte è toccata alle 60 denunce per le violenze nella scuola Diaz. E per le cariche al corteo pacifista (c’era la rete Lilliput e i cattolici) in Piazza Manin.

Nemmeno sull’uccisione di Calo Giuliani è stata fatta davvero chiarezza. Mario Placanica, all’epoca appena 21 anni, è il carabiniere che, secondo i giudici, ha sparato in quel drammatico pomeriggio in piazza Alimonda. Secondo la magistratura ha agito per legittima difesa. In più, da alcuni accertamenti balistici, emerge che Placanica non abbia sparato verso Giuliani. Ma verso l’alto. Il colpo ha impattato una pietra, ha cambiato direzione, e ha colpito il manifestante. Quando si dice la fantascienza…

Al di la del percorso che ha fatto o che farà la giustizia, Genova ha lasciato tante domande inevase. Che ancora aspettano una risposta. Cosa ci faceva Fini nella questura genovese mentre per strada infuriavano gli scontri? Perché alcuni vertici delle forze dell’ordine parlottavano e si accordavano con i black block? Perchè furono create ad arte delle bottiglie molotov al solo scopo di fare irruzione nella scuola Diaz? Perchè Bolzaneto? Perchè a Bolzaneto i manifestanti (quando stranieri) furono costretti a firmare un modulo pre-stampato in cui dichiaravano di non voler contattare ambasciate e consolati? Chi aveva dato input a stampare quei moduli? Chi aveva ordinato di attaccare il corteo (autorizzato) delle Tute bianche in via Tolemaide? E poi sull’uccisione di Carlo Giuliani: siamo sicuri che a sparare sia stato Mario Placanica, e non qualche superiore presente sul Defender? E la politica: che fine fece in quei giorni in cui una democrazia occidentale si trasformò in un regime sudamericano? Le istituzioni latitavano. Si tapparono gli occhi e la bocca. Hanno deciso di non guardare e di non prendersi le proprie responsabilità. Come nel 2006, quando Camera e Senato, con il voto congiunto di Pdl, Lega e Italia dei Valori, hanno bocciato la commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti di Genova. Poteva essere un’occasione (finalmente) per capire. Per conoscere. Berlusconi, Bossi e Di Pietro l’hanno sprecata.

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Pazzo luglio, grandinata a Milano


Grandine. Grandine. E ancora grandine. Milano è stata presa a schiaffi da una pioggia di ghiaccio. E la cosa strana è che siamo all’8 di luglio. In alcune zone della città la visibilità è stata ridotta quasi a zero.  Non sono mancati i disagi. Impossibile camminare a piedi. Difficile procedere in macchina. I tetti delle case si sono colorati di bianco. Come i campi, i parchi e le aree verdi. Il tutto è durato meno di mezz’ora. Poi, l’arcobaleno.

Queste foto sono state scattate a nord di Milano.

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Calciopoli, ancora tu…

Stefano Palazzi

A Calciopoli non c’è mai fine. Lo scandalo del 2006 non ci lascia. Anzi: raddoppia, a quanto pare. Secondo la giustizia sportiva anche l’Inter, nel periodo precedente il 2006, telefonava ai designatori e, dunque, commetteva illeciti. Lo dice il procuratore federale, Stefano Palazzi, che il 4 luglio 2011 ha consegnato la relazione in merito all’archiviazione, per prescrizione, della richiesta della Juventus per l’assegnazione dello scudetto assegnato all’Inter nel 2006.

Il faldone depositato dal giudice federale è corposo: 72 pagine. Nelle carte c’è un giudizio pesante sull’operato di Giacinto Facchetti, nel 2006 presidente del club milanese, ritenuto colpevole di «illecito sportivo» (articolo 1 del codice di giustizia sportiva). L’ex terzino nerazzurro, si legge, attraverso l’avvicinamento dei designatori arbitrali, Bergamo e Paieretto, tentava di «assicurarsi dei vantaggi». La relazione di Palazzi è dura anche nei confronti dell’Inter. Secondo il procuratore federale il club di via Durini violò l’articolo 6 del codice di giustizia sportiva, quello sugli illeciti.  Insomma Moratti, nel 2006 patron nerazzurro (si era dimesso dalla carica di presidente nel gennaio 2004), sapeva delle telefonate tra Facchetti e il duo di designatori arbitrali. Gli eventuali reati sono tutti prescritti (la legge faceva scattare la prescrizione dopo 2 anni dal reato se l’imputato è un tesserato, 4 in caso di coinvolgimento di una società ) e Palazzi non ha voce in capitolo sulla revoca all’Inter, e la conseguente non assegnazione, dello scudetto del 2006 (vinto dalla Juventus ma assegnato all’Inter dopo lo scoppio dello scandalo di Calciopoli). Lo potrà fare solo il Consiglio federale. L’organo, presieduto dal numero uno della Figc, Giancarlo Abete, si riunirà il prossimo 18 luglio e si pronuncerà in merito.

Subito sono arrivate le prime reazioni. Sdegno in casa nerazzurra, soddisfazione dalle parti

Massimo Moratti

di corso Galileo Ferraris. Il presidente dell’Inter, Massimo Moratti, rispediscea le accuse al mittente. E definisce le carte: «un attacco grave e assolutamente inaccettabile. Palazzi si sbaglia. E poi considerare Facchetti come nelle accuse della procura federale è offensivo, grave e stupido. I tifosi dell’Inter conoscono perfettamente Facchetti e lo conoscono perfettamente anche i signori che si saranno seduti a quel tavolo per decidere non so cosa ». Di umore opposto, invece, Giovanni Cobolli Gigli, il presidente della Juve post-Calciopoli che, dopo anni di silenzio, ritrova la parola: «Era un periodo in cui i dirigenti parlavano troppo con gli arbitri. Prima di tutto la Juventus, ma anche altre squadre, tra cui l’Inter, erano coinvolte in tutto ciò. Possiamo dire che fosse un mal comune e credo, quindi, che quello scudetto non debba essere assegnato».

Palazzi non si pronuncia sulla querelle legata al titolo del 2006. Ma scrive: «Alla luce delle considerazioni svolte durante la presente disamina,(…) questo Ufficio ritiene che sulla questione costituente oggetto dell’esposto (la revoca dello scudetto all’Inter ndr) possa, in ipotesi, pronunciarsi esclusivamente la Federazione, da una parte, in conseguenza della improcedibilità delle situazioni di rilievo disciplinare emerse e, dall’altra, in conformità a quanto affermato nel parere consultivo reso il 24 luglio 2006 dalla Commissione nominata dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio e composta dall’Avv. Gerhard Aigner, dal Prof. Massimo Coccia e dal Prof. Roberto Pardolesi. Ne consegue che, nella specie, appare fondato e ragionevole ritenere la sussistenza, nell’ambito dell’ordinamento di settore, di un interesse qualificato, facente capo alla Federazione, in ordine all’acquisizione di tutti gli atti del presente procedimento, al fine di poter più compiutamente valutare l’ammissibilità e, quindi, l’eventuale fondatezza della richiesta formulata dalla società Juventus F.c. ».

Tronchetti Provera, Moratti e Facchetti a S.Siro

E riferito ai rapporti tra Facchetti e i disignatori arbitrali: «la reiterazione delle telefonate; i rapporti di consolidata conoscenza fra gli interlocutori; l’affidamento insorto in questi ultimi sulle informazioni attese o ricevute; la reciprocità delle informazioni richieste; la assoluta inverosimiglianza o contraddittorietà delle giustificazioni fornite dai soggetti esaminati nel corso delle indagini; rappresentano tutti elementi gravi, precisi e concordanti, in ordine alla illiceità di molte delle condotte in esame e che consentono di escludere una qualsivoglia verosimile ricostruzione alternativa dei fatti oggetto di indagine». Secondo la procura federale «le condotte in parola siano tali da integrare la violazione, oltre che dei principi di cui all’art. 1, comma 1, CGS (codice di giustizia sportiva, ndr), anche dell’oggetto protetto dalla norma di cui all’art. 6, comma 1, CGS, in quanto certamente dirette ad assicurare un vantaggio in classifica in favore della società Internazionale F.c., mediante il condizionamento del regolare funzionamento del settore arbitrale e la lesione dei principi di alterità, terzietà, imparzialità ed indipendenza, che devono necessariamente connotare la funzione arbitrale. Oltre alla responsabilità dei singoli tesserati, ne conseguirebbe, sempre ove non operasse il maturato termine prescrizionale, anche la responsabilità diretta e presunta della società ai sensi dei previgenti artt. 6, 9, comma 3, e 2, comma 4, CGS».

Secondo Palazzi il quadro che emerge dalle nuove intercettazioni telefoniche riguardanti, in particolar modo, l’Inter, ma non solo, è tale da poter paragonare l’attuale fase a quella di Calciopoli del 2006.

Le carte rese note il 4 luglio si pronunciano anche sulle posizioni di altri tesserati nel 2006. Palazzi parla di assoluzione per i dirigenti Zamparini (Palermo) e Zanzi (Atalanta), perché i loro colloqui con gli allora designatori Bergamo e Pairetto sono considerati irrilevanti.

Si parla, invece, di violazione dell’articolo 1 (quello sulla lealtà sportiva) per Cellino (Cagliari), Campedelli (Chievo), Foschi (Palermo), Gasparin (Vicenza), Governato (Brescia), Corsi (Empoli), Spalletti (allenatore Udinese).

Si credeva che l’inchiesta di Calciopoli facesse già parte della storia recente del nostro calcio. Invece non è così. Perchè, al di la di come si pronuncerà la Corte Federale il 18 luglio, di quel 2006 si continuerà a parlare. Ci saranno ancora divisioni. Discussioni. E fratture. Come quella, ormai insanabile, tra Inter e Juventus: alleate nella battaglia per i diritti tv ma divise su tutto il resto.

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Milano, muore dopo un sopralluogo della polizia.

Siamo alle solite. Milano. Periferia est. Un uomo muore dopo un controllo eseguito da una volante della polizia. Si chiama Michele Ferrulli. Ha 51 anni e ha precedenti per resistenza a pubblico ufficiale, lesioni, danneggiamento e ingiuria.

Il policlinica di San Donato Milanese

A quanto pare è successo ancora: dopo Federico Aldovrandi, a Ferrara, e Stefano Cucchi, a Roma. Questa volta è accaduto a Milano. Vicino all’Ortomercato del capoluogo lombardo. Questi i fatti emersi dalle prime, parziali, ricostruzioni. Nella notte tra il 30 giugno e il 1 luglio in via Varsavia, non lontano dal parco Alessandrini, c’è un gruppo di persone che urla e ascolta musica ad alto volume. Gli abitanti della zona non riescono a dormire. Qualcuno, preso dallo sfinimento da quei continui schiamazzi, chiama la polizia. Passano pochi minuti e interviene una volante. Tra i militari e il gruppo i toni si fanno subito alti. Esagitati, dicono i pochi testimoni. Michele Ferrulli viene bloccato dai militari. Viene steso a terra, immobilizzato e reso inoffensivo. E qui, accusano gli avvocati della famiglia della vittima, i poliziotti si sarebbero accaniti sul corpo del 51 milanese. Tanto da provocarli ferite. Per questo l’uomo viene trasportato al policlinico di San Donato Milanese. E dopo un po’muore.

La figlia di Ferrulli e gli avvocati della famiglia accusano esplicitamente le forze dell’ordine

Michele Ferrulli (corriere.it)

di aver provocato la morte dell’uomo. La mattina del 1 luglio, sul posto, in via Varsavia, sono arrivati alcuni sottufficiali della polizia giudiziaria della Procura, che hanno acquisito i filmati delle telecamere della farmacia adiacente al bar davanti al quale si sono avvenuti i fatti. Secondo la famiglia Ferrulli, ci sarebbe anche un secondo filmato: quello realizzato da un cittadino con un telefonino, che documenterebbe il pestaggio. Secondo le ricostruzioni riportate da http://www.corriere.it, nel filmato ci sono immagini che mostrerebbero agenti di polizia che colpiscono l’uomo già a terra immobilizzato.

Le forze dell’ordine si difendono dalle accuse e danno un’altra versione dei fatti. L’uomo «non è stato picchiato», dichiara la Questura di Milano. Ferrulli, secondo la ricostruzione degli agenti di via Fatebenefratelli, si è opposto a un semplice controllo. Pare che il 51enne milanese non voleva farsi identificare e ha subito mostrato «un atteggiamento ostile nei confronti degli operanti». Mentre il capo equipaggio si voltava verso l’auto per raggiungere l’apparato radio, spiega la Questura, luomo ha alzato un braccio nel tentativo di aggredire alle spalle il poliziotto. E’ stato bloccato da un altro agente, che ha dovuto usare due manette per immobilizzarlo. A quel punto ha avuto il malore, gli sono state tolte le manette e chiamato il 118. E’ morto in ambulanza prima dell’arrivo in ospedale.

Il corpo di Michele Ferrulli l’1 luglio è stato portato all’Istituto di medicina legale: l’autorità giudiziaria ha disposto l’autopsia per chiarire le cause della morte. La Procura ha aperto un fascicolo per omicidio preterintenzionale.

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Politica a luci rosse. Il Pd di Pisa alle prese con l’hard

Impegnata in politica, segretaria di sezione e…attrice di film hard. Tutte e tre le cose insieme non stanno. E così, una giovane dirigente del Pd di San Miniato, in provincia di Pisa, 25 anni, è stata costretta alle dimissioni dopo che in rete è stato scoperto un film pornografico di cui è protagonista.

Il titolo della pellicola è “È venuto a saperlo mia madre”. Nelle riprese l’attrice con la passione per la politica fa sesso con un’altra donna e due attori. Nelle scene indossa una mascherina per non farsi riconoscere. Tutto inutile, però. Perché qualcuno, solleticato dalla curiosità e da qualche sospetto, si è preso la briga di confrontare quelle immagini con il profilo Facebook della ragazza. E l’identità dell’attrice è stata svelata.

La vicenda è riportata dai quotidiani locali della Toscana. Lei è una giovane laureata (ha discusso la tesi da pochi giorni), molto impegnata nel Partito Democratico. Era anche segretaria di sezione. Fino a qualche giorno fa. Quando la sua vita a “luci rosse” è venuta a galla. Ed è stata costretta alle dimissioni dai dirigenti del partito. «Abbiamo evitato la decisione della sospensione immediata perché la ragazza ha convenuto con noi che era meglio lasciare», ha detto un esponente del Pd pisano. «Siamo certi che la ragazza ha commesso una leggerezza della quale, ora, forse si sta rendendo conto. Tuttavia, nonostante il suo attivismo e l’opera preziosa che ha svolto fino ad oggi, è giusto e doveroso che abbia fatto un passo indietro. Sarebbe stato impossibile, per lei, oggi presiedere senza imbarazzo una riunione di sezione», ha concluso il dirigente.

Intanto il sito Internet che pubblicizza il film è stato preso d’assalto: tanti i clic da quando la notizia è cominciata a circolare. Dell’ormai ex dirigente si sa poco. Le cronache locali dicono che da giorni si è barricata in casa. Fuori, invece, per strada, tutti parlano di lei. Chi la conosce la descrive come una ragazza «molto colta e appassionata di lettura». Oltre che di film porno, a quanto pare.

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Brunetta contro i precari

Renato Brunetta

I precari? «Sono la parte peggiore dell’Italia». Lo ha detto il 14 giugno il Ministro della Pubblica amministrazione e dell’Innovazione, Renato Brunetta, a Roma, mentre presenziava al convegno “I Giovani innovatori”, nell’ambito della Giornata nazionale dell’Innovazione 2011

Il ministro aveva appena terminato il suo intervento quando due donne appartenenti alla “Rete dei precari della pubblica amministrazione” ha chiesto di intervenire. Brunetta prima le ha chiamate al microfono, poi, una volta capito chi fossero quelle persone, ha alzato i tacchi e se ne è andato dicendo: «Questa è la parte peggiore dell’Italia». Il ministro ha guadagnato l’uscita ed è ripartito a bordo della sua auto blu. Subito e scattato il parapiglia. Con urla, spintoni e risse sedate con difficoltà.

 

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Se anche la moschea diventa ecologica

Il verde è il colore dell’Islam. È il colore del profeta Maometto: rappresenta il paradiso. Per chi guarda a La Mecca è qualcosa di sacro. Da oggi, per i musulmani tedeschi, verde vuol dire anche ambiente. Ed energia pulita proveniente dal vento. Come quella che produrrà la moschea di Norderstedt, cittadina di quasi 72 mila abitanti vicino ad Amburgo, a nord della Germania. Dove i fedeli hanno deciso di puntare tutto sull’eolico. L’iniziativa costerà 2,5 milioni di euro. Il progetto è stato messo a punto da Selcuk Ünyilmaz, architetto tedesco di origini turche.

La “moschea ecologica” avrà due minareti alti 22 metri e sopra vi saranno montate delle pale eoliche di un metro e mezzo di lunghezza ciascuna. «Ho pensato a come dare a un’architettura sacra un aspetto ecologico il mio progetto unisce la tradizione e la modernità», ha spiegato Selcuk Ünyilmaz.

Secondo i calcoli fatti dall’architetto amburghese le pale eoliche piazzate sui due minareti saranno in grado di produrre fino a un terzo del totale dell’energia che occorrerà alla moschea nel fabbisogno quotidiano.

L’idea di puntare sul vento come fonte di energia pulita non è stato casuale, spiegano dalla Germania. «Ho scelto l’eolico invece dei pannelli solari perché questa città è molto a nord, dunque non c’é molto sole, ma non c’é un giorno che non sia ventoso», ha detto l’architetto.

Il progetto della moschea a basso impatto ambientale piacerà di sicuro agli ecologisti. Anche la comunità islamica di Norderstedt lo ha sostenuto e approvato. E adesso sta cominciando a raccogliere i soldi per la costruzione. Perché, quando c’è da produrre energia pulita ogni spazio è buono. Anche una moschea. Anche un minareto. L’importante è che il vento non smetta di soffiare.

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Passano i referendum

La festa dei promotori dei quattro referendum

Il quorum c’è. Bando alle scaramanzie e alle superstizioni dei promotori. La soglia del 50 per cento + 1 è stata raggiunta e abbondantemente superata. Su tutti e quattro i quesiti su cui gli italiani sono stati chiamati ad esprimersi.

Oltre il 57 per cento degli elettori hanno detto quattro volte sì (non c’è ancora il dato definitivo). Sì per destrutturare la presenza e i guadagni dei privati nella gestione dei servizi pubblici locali (in primis: l’acqua). Sì per rifiutare il ritorno dell’Italia all’energia nucleare. Sì, infine, per abrogare la legge sul legittimo impedimento voluta dal Presidente del consiglio.

La notizia del raggiungimento del quorum, e della conseguente vittoria dei sì, è arrivata anche all’orecchio di Silvio Berlusconi. Che ha commentato con un laconico «addio al nucleare», tralasciando di esprimersi sul legittimo impedimento che, secondo molti, era il suo vero cruccio.

L’opposizione festeggia. E se i Verdi (toh, chi si rivede!) stappano bottiglie di spumante e mangiano torte con su scritto “Grazie Italia”, il Pd, sull’onda dell’entusiasmo, chiede al governo di andare a casa. Il governo si dimetterà, come vogliono i dirigenti democratici? Per ora non è dato saperlo. Certo è che i risultati della consultazione referendaria, al di là di come la si pensi e di come si è votato, sono un segnale che, assieme ad altri (le recenti elezioni amministrative, per esempio), va registrato e interpretato nel medio-lungo periodo.

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